È doveroso premettere che questo discorso non viene fuori alla luce del delitto di cui si sta parlando in questi giorni, né di tutte le polemiche annesse (delitto che secondo me, più che nell’omofobia o nella transfobia in particolare, ha radici in un contesto fortemente disagiato, di cui altri hanno parlato più diffusamente). Quando ho cambiato immagine di profilo per aggiungere i colori della pansessualità (che però in realtà è piuttosto una sessualità fluttuante su tutto lo spettro, come avevo già spiegato qui) e della fluidità di genere, come spesso mi succede l’ho fatto dopo averci pensato molto tempo. Il delitto di Caivano è stata una dolorosa coincidenza, ragion per cui, onde evitare di cavalcare la polemica, ho aspettato qualche giorno prima di pubblicare questo post.
Intanto premetto che gender fluid probabilmente non è la definizione giusta. In passato mi sono definita “prevalentemente femminile”. In realtà stavo ancora elaborando. Partiamo dalla situazione presente: mi va bene essere donna, essere considerata donna, adottare comportamenti e atteggiamenti normalmente associati al genere femminile, andare a comprare roba nel reparto donne eccetera. Potete continuare ad attribuirmi pronomi femminili, è più semplice per tutti e ci sono abituata, con queste cose sono a mio agio.
Ma qui cominciano i travagli: trovo intrinsecamente difficile definire cosa identifica la femminilità. I vestiti? Il trucco? Gli sbalzi di umore? La dolcezza e la sensibilità? (MUAHAHAHAH) Insomma se potete aiutarmi in questo ve ne sono grata, perché io non riconosco caratteristiche univoche dell’identità di genere femminile.
Comunque dicevo, non ho assolutamente, né ho mai avuto una disforia di genere, perché… non ho mai “sentito” il genere come qualcosa di importante per me. Non ho mai percepito di “appartenere” a un genere. Se penso a me da piccola, non mi sono mai sentita femmina nel profondo. Ho la percezione nettissima e inequivocabile che se da piccola, da un giorno all’altro, per magia o per scherzo ormonale, fossi diventata o avessi scoperto di essere maschio, per me sarebbe stato uguale (al netto dello sconcerto altrui, al quale chiaramente sarei stata sensibile).
Se succedesse oggi, i casini che ne conseguirebbero sarebbero prevalentemente relazionali (ho un marito decisamente eterosessuale) e burocratici, e chiaramente dovrei fare bruscamente i conti con quarant’anni di esperienza in cui ho assunto e mi sono adattata al genere femminile. Ma è stato un adattamento: mi sono trovata in questo corpo, mi andava bene, poteva capitarmene uno maschile e avrei avuto un’evoluzione, anche psicologica e relazionale, diversa, ma plasmata dalle mie esperienze, non dal mio genere “di partenza”.
Come si può dire in questi casi? Gender indifferent? L’indifferenza è in effetti un concetto chiave. Il mio disinteresse per tutto ciò che è stato declinato “al femminile” è sempre stato totale. Tipo le riviste. Ma non è che sono attratta dalle riviste per il genere maschile. Fosse per me, tutte le riviste dovrebbero essere unisex, punto.
Va da sé che fatico molto a comprendere come si possa essere “fiere di essere donna”. Ecco, forse per me è un po’ come la nazionalità: il significato della fierezza “di essere italiani” mi sfugge completamente. Come posso essere fiera di qualcosa che non dipende da me, a cui non ho minimamente contribuito? Tu dici, puoi essere fiera del fatto che pur essendo donna sei riuscita a combinare questo e quello. Meh. Non lo so, credo mi sia sempre mancata la consapevolezza dell’essere donna, quindi è possibile che di eventuali discriminazioni sistematiche in ambiti professionali non mi sia accorta o le abbia percepite come un problema personale (e vi assicuro che se foste statx come me fino ai circa 33 anni, non vi sarebbe sembrato tanto improbabile).
E allo stesso modo non sento in modo profondo e personale alcune cause e rivendicazioni per il genere femminile, anche se molte le supporto comunque. Tendo in ogni caso a selezionare solo quelle estremamente inclusive e trasversali. Mi lascia perplessa, per esempio, un movimento per combattere “la violenza maschile sulle donne”.
Naturalmente, è del tutto legittimo che una persona o un’associazione decidano di dedicarsi a una specifica istanza, non si può combattere per tutto. Un’istanza può essere particolarmente importante per qualcuno, al punto di decidere di dedicare il proprio tempo e le proprie energie esclusivamente a essa anche nel caso in cui si tratti di un’istanza minoritaria. Negare questo diritto è benaltrismo. Ma allo stesso tempo chi lo fa deve essere cosciente di aver fatto una selezione basata sulle proprie inclinazioni. Dedicarsi a una causa non deve significare che le altre cause, in assoluto, diventano automaticamente sbagliate o irrilevanti. Per questo motivo le battaglie che implicano una contrapposizione tra generi sono a loro volta implicitamente discriminanti.
Concludo rispondendo a una lettrice che mi ha chiesto se raccontare queste cose di me è davvero necessario e chi se ne frega. Mi sembra strano ribadire l’ovvietà che nei miei spazi personali parlo di quello che mi pare, anche della mia frequenza di scanappiamento se ne sento il bisogno. In secondo luogo è significativo che io possa spiegarvi perché un film mi è piaciuto o meno, o parlare dei miei gusti in fatto di cibo o musica, e non possa raccontarvi queste cose della mia persona. L’identità di genere fa parte delle nostre inclinazioni profonde e importanti, ed è tuttora oggetto di fraintendimenti e discriminazioni. Se per te che leggi è del tutto irrilevante, buon per te, evidentemente non hai bisogno di leggerne. Se invece ti dà fastidio leggerne, forse allora potresti cominciare a comprendere perché ne parlo. E sì, è anche per “fare comunità”.
Si parla sempre (a sproposito) degli idioti che su internet hanno acquisito diritto di parola. Ebbene, sfruttiamo l’internet per quello a cui serve: a far capire ad altre persone che non sono sole, che non sono strane, che non sono dei freak. Che esiste qualcuno che condivide almeno in parte il loro percorso e riesce, nel migliore dei casi, a capirsi e a trovarsi anche nel confronto con quanto detto spontaneamente da qualcun altro, o anche per contrasto con le parole di qualcun altro. Se nessuno lo facesse, sono convinta che ci sentiremmo più soli, tutti.
Non so cosa pensare. Per certi versi condivido certe tue sensazioni: essere vissuto da nomade mi ha privato del senso delle “radici”, termine che non riesco a comprendere o a vivere: sono un essere umano, e basta. Sul campo della sessualità è diverso. Provo un’istintiva simpatia quando parli della casualità di avere un corpo femminile. Però poi quando la mia compagna ha fatto outing mi sono risentito da morire. Sono diventato consapevole di avere una sessualità monca, che vive al 50% delle sue potenzialità ma non sono riuscito a superare la mia cultura. Insomma, poco idee ben confuse.