Con un certo colpevole ritardo dovuto unicamente ai meccanismi della mia attenzione selettiva, nonché ai miei tempi di elaborazione non proprio prontissimi, vorrei commentare sul risultato dell’indagine commissionata dai membri delle pagine di Nucleare e Ragione, La Fisica che non ti Aspetti e l’Avvocato dell’Atomo e condotta in Italia da SWG. Il dettaglio di questa indagine si trova qui e mi riservo di commentare solo su alcuni aspetti, ossia le scelte di transizione energetica, le differenze tra genere e orientamento politico e, in parte, le motivazioni dei sì/no.
La mia scelta non si basa sull’importanza che assegno agli argomenti, ma è semplicemente derivante da alcune riflessioni che mi sono frullate in testa questa settimana. Per questo motivo, oltre che per il carattere non strettamente “scientifico” e talvolta personale delle mie considerazioni, ho deciso di scriverne sul mio blog.
Transizione energetica
Alla domanda “su quali fonti bisogna puntare di più per sostenere la transizione energetica (il superamento delle fonti fossili non rinnovabili come carbone e petrolio)?” il 76% ha risposto fonti rinnovabili, il 28% gas naturale e il 12% nucleare, con varie combinazioni che vedevano come prima scelta (20%) rinnovabili e gas naturale.
Ammetto che vedere le rinnovabili in testa come proposta per la transizione energetica non mi stupisce: le rinnovabili sono associate nell’immaginario collettivo a sostenibilità, basso impatto ecologico, scalabilità verso il basso eccetera. Non intendo qui dilungarmi su quanto queste affermazioni siano o meno corrette, a me interessano le questioni di percezione, e sono abbastanza delusə dal fatto che il gas riscuota più successo del nucleare.
Andando a vedere i fattori che potrebbero suggerire questa scelta, c’è stato un certo endorsement da parte di alcuni personaggi molto visibili secondo i quali il gas a zero emissioni è un obiettivo raggiungibile, si è parlato spesso di recente di cattura e sequestro del carbonio, e gli impianti a ciclo combinato hanno ottimizzato il rendimento elettrico delle centrali a gas, che supera il 60% a fronte del 30-35% circa di altre tecnologie (naturalmente ci sono anche altri fattori di cui tenere conto quando si valuta l’efficienza complessiva di una fonte, e considerando solo il combustibile il confronto col nucleare non esiste nemmeno).
Tuttavia non so quanto questi fattori abbiano rilevanza presso il pubblico di non esperti, e temo che la preferenza per il gas naturale significhi che il problema dei cambiamenti climatici non ha conquistato la necessaria attenzione. Certo, se escludiamo questo aspetto, da un punto di vista sanitario e ambientale il gas naturale è molto più pulito del carbone e del petrolio, ma è pur sempre una fonte climalterante, ha le sue criticità di trasporto, ha un prezzo che a livello di mercato internazionale è fortemente legato alle fluttuazioni del petrolio e pone le nazioni che ne fanno uso sotto il ricatto di alcuni esportatori.
Riconsiderare il nucleare: le differenze di genere
Alla domanda “Oggi, data l’attuale situazione energetica, secondo lei ha senso riconsiderare la possibilità di usare il nucleare?” un terzo degli intervistati ha risposto sì e due terzi no. Il confronto temporale con il periodo post-Fukushima sembra indicare un leggero recupero del nucleare rispetto al momento di minimo (25%).
Gli uomini sono in genere più favorevoli (41%) rispetto alle donne (25%). Inoltre, gli uomini si ritengono mediamente più informati sul tema (54%) rispetto alle donne (28%). Queste differenze di genere sono importanti e hanno ragioni sia culturali, sia storiche. Contribuisce senz’altro il gender gap nelle materie scientifiche e la tendenza generale degli uomini a essere più fiduciosi delle proprie capacità, più inclini a correre rischi e più ottimisti verso il futuro (e il nucleare, giusto o sbagliato che sia, è considerato come una tecnologia non solo rischiosa, ma che esternalizza parte dei suoi rischi sulle generazioni future).
Dato che poi l’immaginario collettivo sul nucleare ha insistito molto sugli effetti dell’assunzione di iodio radioattivo tramite il latte, dell’esposizione in utero e intergenerazionali, con una lunga tradizione di mutanti e bambini di Chernobyl’ è naturale che in un contesto in cui le donne si fanno ancora carico in modo preponderante della maternità e dell’accudimento, la preoccupazione per le generazioni future sia più marcata e l’opposizione più probabile.
In questo immaginario si mescolano:
- cose vere: i bambini, organismi in crescita, sono effettivamente molto sensibili alle radiazioni.
- cose vere ma sovradimensionate: per esempio, i tumori alla tiroide nei più giovani sono in effetti aumentati dopo il disastro di Chernobyl’, in alcune comunità anche di 10 volte. Ma una volta rinormalizzati i dati tenendo conto del maggior numero di controlli, che ha portato a scoprire molti tumori asintomatici e autolimitanti, questa conseguenza si è registrata in Ucraina, in Bielorussia e in parte della Russia, mentre per esempio nel Nord Italia non si è avuto alcun aumento statisticamente significativo.
- cose che appaiono smentite dai dati, ma sono talmente radicate nella nostra memoria storica che ogni smentita, anche se supportata da studi ampi e approfonditi, sembra quasi una mancanza di rispetto. Mi riferisco agli effetti intergenerazionali: l’idea di una “macchia” che va a colpire i figli (e i figli dei figli) va a cozzare con una narrazione molto radicata e, direi, data per scontata. È significativo a mio avviso, per esempio, questo articolo del National Geographic: l’assenza di mutazioni nelle nuove generazioni non figura nell’occhiello e viene trattata molto avanti nell’articolo, quasi si avesse il timore di contraddire un assunto sacro.
C’è anche un altro aspetto di discriminazione sistemica nel nucleare (e qui premetto che farò una digressione molto lunga). A partire dalla seconda guerra mondiale, le donne sono state impiegate nei progetti bellici di USA e URSS, ma pochissime hanno raggiunto ruoli di preminenza. Spesso venivano assunte solo perché preferibili agli uomini afroamericani, latinoamericani o ai nativi (in USA) o ai tedeschi e agli ebrei (in URSS), e venivano comunque assegnate a lavori pericolosi e pagate meno degli uomini. In generale, il complesso tecnico-industriale nucleare, sia militare sia energetico, è uno degli ambienti più segregati al mondo, pur in assenza di una discriminazione epistemica: non solo nei confronti delle donne, ma anche delle minoranze in generale.
A titolo di evidenza aneddotica, riporto la mia difficoltà nel reperire libri scritti da donne (ma anche da un afroamericano, se è per questo) e l’impossibilità virtuale di trovarne uno di una certa rilevanza che assuma una stance chiaramente favorevole al nucleare (se poi me li segnalate, mi fate solo un favore).
Io ho circa una quarantina di libri sull’argomento: di questi sette sono scritti da donne, e solo uno ha una certa rinomanza al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori: si tratta di Preghiera per Chernobyl di Svetlana Alekseievich, che poi ha fornito gran parte del materiale per la miniserie TV. Per chi non lo conoscesse, è un bellissimo libro, che raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti, dei familiari dei liquidatori, dei residenti nella zona di esclusione: non è un libro con pretese scientifiche, comunque se si considera questa particolare prospettiva, è difficile farsi un’opinione positiva del nucleare.
Altri libri di donne che ho letto sull’argomento sono:
- Guasto, di Christa Wolf, che forse è la più importante scrittrice della ex DDR e racconta la giornata del disastro in retrospettiva vista, appunto dalla Germania dell’est, dove era arrivato il fallout, facendosi molte domande sulla responsabilità sociale e sulla retorica dello sviluppo tecnologico e della sicurezza.
- Plutopia, di Kate Brown, che racconta la storia delle due città di Ozersk (URSS) e Richland (USA), le quali servivano gli stabilimenti di Mayak e di Hanford per la produzione di plutonio per le bombe atomiche, con attenzione particolare a tutto quanto finiva sotto al tappeto: gravi problemi di contaminazione ed esposizione, nonché segregazione razziale e discriminazione
- The Plutonium Files, di Eileen Welsome, una massiccia inchiesta che dettaglia gli esperimenti non etici ai danni di civili statunitensi a cui furono iniettate o altrimenti somministrate sostanze radioattive senza il loro consenso, militari che furono forzatamente esposti al fallout dei test e via dicendo
- L’Apocalisse Immaginaria, di Raffaella Monia Calia (e Luigi Caramiello), che analizza l’impatto dell’immaginario nucleare sulla fiction.
L’ultimo libro è abbastanza neutro; per quanto riguarda gli altri, si può intuire come il framing in cui le storie vengono collocate non possa dipingere il comparto nucleare in una luce positiva (e di fatto, per una serie di motivi storici, è molto difficile per i non addetti scindere psicologicamente il civile dal militare).
Non ho ancora letto invece due testi abbastanza tecnici che sono The radiance of France di Gabrielle Hecht e The Nuclear Taboo di Nina Tannenwald. Il primo parla di come in Francia il nucleare sia diventato parte dell’orgoglio nazionale, facendosi sostituto del decaduto potere coloniale, e il secondo prova a considerare l’equilibrio instauratosi nella Guerra Fredda non tanto come il risultato delle politiche di deterrenza ma di un tabù nucleare. Non credo di riuscire a trovare un atteggiamento dichiaratamente positivo in questi libri ma mi riservo di aggiornare il post in caso contrario.
In generale però si può notare come le donne che si occupano di questi temi siano più orientate a discuterne meno gli aspetti tecnico-strategici e più le implicazioni sociali, morali e sanitarie, quest’ultimo aspetto però non da un punto di vista statistico ed epidemiologico “impersonale” ma con un approccio più reportagistico, basato sulle testimonianze individuali, che ha certamente una sua validità ma vede solo un aspetto della questione.
C’entra forse anche qui la tendenza media (biologica o culturale che sia) delle donne a mostrare maggiore empatia e maggiore comprensione delle emozioni altrui. La trattazione tecnica dell’industria nucleare diventa quindi al più un elemento storico e contestuale, funzionale a raccontare storie personali. E le storie personali fanno molta presa, il che crea uno svantaggio mediatico per il nucleare, i cui benefici tendono a essere molto più distribuiti e impersonali, mentre il contrario vale per le conseguenze negative.
Le differenze politiche
Guardando le inclinazioni politiche, i più favorevoli al nucleare votano Lega (43%) e Fratelli d’Italia (37%), mentre coloro che votano PD e Movimento 5 Stelle sono meno favorevoli (24% e 25% rispettivamente; gli indecisi politici si attestano al 30% di favorevoli). Per i partiti più di destra entra in gioco un desiderio di autonomia energetica che si sposa bene col sovranismo.
Per i 5stelle c’è poca sorpresa: la folk politics su cui si basano rifiuta in generale una tecnologia di grande scala, che sia essa relativa al farmaceutico, all’agroalimentare o all’energia. Ammettendo che il PD raccolga in qualche modo l’eredità della sinistra italiana, questo risultato è meno sorprendente di quanto potrebbe pensare chi associa sinistra e progressismo.
C’è stato in effetti un periodo iniziale in cui le élite di sinistra avevano salutato con favore la tecnologia nucleare, grazie al suo potenziale rivoluzionario, anche in virtù della sua diffusione nell’area d’influenza sovietica, dove – anche in quel caso – era parte integrante dell’orgoglio nazionale e di un’utopia socialista che era proibito mettere in discussione (e in questo, ci sono senz’altro altre ragioni storiche che vanno prese in considerazione e che sono profondamente legate alla corsa alle armi nucleari in guerra fredda).
Nell’avversione della sinistra per il nucleare entrano in gioco i legami della sinistra con il movimento ambientalista delle sue origini – origini che ne hanno determinato l’impronta storica e che vedono un ruolo importante nella preoccupazione per il fallout da testi atomici, trasferita poi nella preoccupazione per il fallout da incidenti nucleari. Inoltre, la sinistra della contestazione storica è connotata da tratti anti-autoritari, anti-gerarchici, di diffidenza nei confronti delle istituzioni, dei conglomerati, di tutto ciò che non può essere riportato (e controllato) “a misura d’uomo”.
L’energia nucleare in sé non è politicamente schierata; ma di fatto, l’entità degli investimenti iniziali, la necessità di un’altissima specializzazione e i requisiti di sicurezza sempre più stringenti hanno portato, nei paesi occidentali, alla costruzione di impianti grossi, multi-unità, che potevano solamente essere costruiti e gestiti da grandi corporazioni dotate di grandi capitali, sulle quali si mette in dubbio l’efficacia di un controllo indipendente (un discorso non limitato al nucleare ma anche ad altre tecnologie trasformative).
I motivi del sì/no
Un ultimo commento a chiusura riguarda i motivi del sì/no: tra i favorevoli, solo il 21% ha citato le emissioni di gas serra. Anche questo è un dato deludente, e in Spagna va ancora peggio: secondo l’ultima indagine del Foro Nuclear, la percentuale dei favorevoli al nucleare che indicano questo motivo è inferiore al 10% (il dato è dedotto dal fatto che non compare tra i tre motivi principali).
Dal punto di vista mio e della mia “bolla”, questo è il framing che maggiormente giustificherebbe una rivalutazione del nucleare nel mix energetico; eppure non si può ignorare che, come dicevo sopra, il movimento ambientalista a cui si rifanno anche i Fridays For Future, pur variegato e separato al suo interno, ha le sue radici nelle contestazioni al nucleare e queste ne determinano ancora fortemente l’identità.
Sovrapporre il supporto al nucleare all’ambientalismo richiederebbe dunque molto più che informazione e divulgazione: richiederebbe un vero e proprio shift identitario, qualcosa che forse, complice anche il ricambio generazionale, potrebbe avvenire in decenni, o forse no. E dati i tempi che stringono, non c’è da essere troppo ottimisti. (Ma ci si prova)